domenica 6 maggio 2012

Cosa resta...


Avevo immaginato che potesse essere un viaggio lungo, spossante e a tratti infinito. Molte sono le leghe che separano Everantha da Rashemen e nella mia mente l'unico modo possibile per percorrerle era a cavallo, lungo la strada delle carovane e dei viaggiatori, costeggiando l'enorme terra morta di Anauroch, attraversando il Cormyr, terra di maghi e cavalieri, la grande Corte Elfica di Myth Drannor, che ha certamente visto giorni migliori di questi, e la Sembia, la casa di Salix di cui  per infinite ore mi parlò durante le giornate trascorse insieme. E infine lì, oltre il Mare delle Stelle Cadute, cercando di sfuggire in ogni modo ai pirati. E poi oltre la costa percorrendo la Via Dorata, oltrepassando Telflamm, tutta Thesk e un numero imprecisato di terre selvagge. Poi, quando l'aria si fosse tramutata e avesse assunto quella fredda e mistica essenza che tanto mi è cara, allora avrei saputo di essere finalmente giunto a casa…a Rashemen.
Ma nulla di tutto questo è potuto accadere, poiché gli dei, e Mielikki, così come determinarono la mia partenza determinarono il mio ritorno. Alla fine della battaglia nella dimora degli Elfi Acquatici, quando finalmente gettai la carcassa di quel demone contro il freddo muro della sala del trono, trovai un oggetto…un anello. Akhelaytas, il mio grande amico sacerdote di Corellon Larethian, si offrì di esaminarlo prima di reclamare la Lama della Luna. Quel piccolo artefatto conteneva una potente magia, così potente che avrebbe potuto spedire un uomo dalla Costa della Spada fino a Mulsantir in pochissimi attimi, tanti quanti erano stati quelli che avevo impiegato per il primo viaggio…più di due anni fa ormai. E dunque gli dei avevano preso la loro decisione: per mezzo di un incantesimo giunsi dall'altra parte del mondo e per mezzo di un incantesimo avrei fatto ritorno.
Naturalmente onorai la mia parola con gli Elfi e scortai Akhelaytas e la Lama della Luna fino al castello di Naitheraska. Poi presi la mia decisione. 



Non vi fu bisogno di parole col sacerdote. La sua saggezza era tale che riuscì a comprendere le mie intenzioni nel momento stesso in cui mi guardò negli occhi, rivelandomi quello che l'anello poteva fare. Ma con altri non fu così. Perché quel popolo che dapprima averi sterminato senza pietà alcuna, tacciandoli di arroganza, inutilità, ingiustificata maestà e quanto di più insultante e disonorevole vi sia in questo mondo, finì col tempo per annoverare molti tra i più cari amici che ora porto nel cuore. Tra di queste certamente Elanor di Evermeet. Lei non prese di buon grado la mia partenza, e Mielikki sa che sforzo ho dovuto fare per convincerla della necessità di quel mio gesto. Ogni uomo, in qualunque storia venga coinvolto, ha un ruolo. Un ruolo che deve sforzarsi di comprendere e perseguire. Per quanto tutto ciò possa sembrare strano e incomprensibile, ora per me è chiaro come la luce del sole.
Chi era Rannek? Chi era questo guerriero di Rashemen che ben poco sembrava avere a che fare con quella terra? I rashemi sono spesso di statura media. Lui era invece molto alto. I rashemi hanno spesso capelli scuri come la notte. I suoi erano dello stesso colore dell'oro antico. Ma tolti questi dettagli, egli era il più imprudente, arrogante e fiero giovane che sia mai asceso ad essere un Berserker. L'onore, la gloria, le grida di trionfo quando, dopo aver scaraventato a terra il cadavere del tuo nemico, sollevi al cielo l'arma con cui lo hai distrutto. Era questo ciò che cercava. Era questo per cui viveva. Per gli dei…ripensandoci non posso fare a meno di darmi dello sciocco. Ero un ignorante e sconsiderato giovane innamorato delle leggende degli antichi guerrieri, e facevo di tutto per somigliar loro. Per questo vivevo…e per questo sono stato punito.
Si. Perché tutti sappiamo quale sia la parola per definire l'essere allontanato dalla propria terra senza avere alcun diritto di replica: esilio. Quando mi ritrovai con il volto a terra e le mani a toccare l'umida superficie del bosco di Neverwinter, io ero un esiliato. Spedito lì certamente per la volontà degli dei, anche se per mezzo di un nemico, per apprendere tutto quello che mi era sfuggito prima. Ma…per i diavoli dei Nove Inferi…se ero dannatamente duro di comprendorio. Nemico dopo nemico, battaglia dopo battaglia, desideravo la gloria. Anelavo la sensazione che ti dà il sapere la tua vita in imminente pericolo. Bramavo l'adrenalina che scorre nel sangue di un uomo quando si lascia cogliere dal furore della battaglia. L'odore del sangue che ti entra nel naso e riempie l'aria. Le grida di trionfo…quando alla fine le terra si colora di rosso così come la lama della tua arma e tu, spossato, ferito, magari morente, ma vittorioso…reclami l'onore che ti spetta. Quanto ho dovuto attendere prima che tutto questo cambiasse…



Arriva un momento nella vita in cui ti domandi se tutto quello che fai e che hai fatto ha un senso. Quanto mi ha perseguitato quella domanda. A cosa servono le tue vittorie, la tua gloria, il tuo onore e tutti i tuoi trofei, finanche le teste dei mostri che hai fatto a pezzi, se tutto è fine a sé stesso? Gli altri ti invidiano, ti rispettano, ti temono addirittura. Ma tu non fai che interrogarti, cercando di capire ciò che davvero vuoi per te stesso. 
Innumerevoli volte i miei pensieri corsero alla mia terra natìa. Avevo lasciato Mulsantir che era sotto assedio da parte dei servi dei Signori dell'Ombra di Telflamm. Era ancora in piedi? Le sue mura avevano retto ancora una volta? E mia madre? Mio padre? E Freyda, mia sorella? La mia famiglia stava bene? Erano vivi? 
Fu in un momento come questo, quando tutte quelle domande mi assalivano, che mi ritrovai a dover chiedere rifugio ai cavalieri del Rifugio di Helm, nella rocca del loro castello. La Costa della Spada era flagellata da terribili tempeste che senza pietà spazzavano via ogni cosa che incontrassero sul loro cammino. Lì…in quel salone di pietra…la mia vita cambiò definitivamente per la prima volta. Poco dopo aver richiuso le grandi porte della sala sentimmo battere all'esterno. Un rumore debole, come se fosse prodotto da una creatura povera di forza, per dimensione o per malattia. In quel luogo un rifugio non si nega a nessuno e due cavalieri finirono per aprire la porta. Chi ci chiedeva aiuto era una bambina. Una infante elfica. Bagnata, ferita, indebolita. I suoi occhi erano disperatamente alla ricerca di qualcosa di rassicurante, ma perché poso gli occhi proprio su di me non mi fu chiaro in principio. Fu una fortuna che avessi trascorso abbastanza tempo in mezzo agli Elfi da apprenderne la lingua, e quando mi rivolsi a lei…la sua risposta fu correre tra le mie braccia e scoppiare in lacrime. 



Il cuore…mi fece male. Non avevo mai provato un simile dolore come quello che quella innocente creatura mi causò. Ora so. Comprendo che era il mio orgoglio che lottava per mantenere il suo posto ma che veniva irrimediabilmente spodestato. Accadde quando vidi i segni sui polsi di quella bambina: erano i segni delle catene dei thayan. Li avrei riconosciuti ovunque e su qualunque creatura. Quei bastardi senza madre avevano inviato i loro schiavisti a raccogliere "merce esotica" e quella bambina era capitata nella loro rete. Eppure in qualche modo era riuscita a fuggire dalla loro carovana, venendo a trovare rifugio al castello. Quei segni…mi trasformarono. Perché quando gli schiavisti irruppero nella rocca per reclamare quello che avevano perduto io estrassi la spada, con la strana consapevolezza che per la prima volta, nella mia vita, non era per me stesso che lo facevo. Ma per lei…per l'innocente che era finita nella loro trappola. Il sangue mi ribolliva al pensiero di cosa avrebbe passato se io avessi fallito. Sarebbe stata condannata a ottocento anni di schiavitù, subendo le peggiori torture, i peggiori supplizi che la malata mente di un thayan possa concepire. Io non potevo permetterlo. Per lei…io stavo combattendo per quella bambina. Quale enorme forza può dare un "buon fine" quando anima il tuo cuore e ti spinge in battaglia. E che battaglia! Yvengi mi sia testimone, non ci fu storia per quegli schiavisti. Caddero uno dopo l'altro, e l'ultimo preferì togliersi la vita da sé piuttosto che divenire un'altra vittima dell'eterna guerra tra Thay e Rashemen.
E quanto tutto fu finito lei sbucò fuori dal luogo in cui l'avevamo nascosta, e tornò ad abbracciarmi chiedendomi se gli "uomini cattivi" fossero andati via. Un tempo avrei detto che simili uomini non vengono mai estirpati, e che non saremmo stati al sicuro fin quando i nostri dei non sarebbero venuti a reclamarci. Ma in quel momento non potei che dirle di si. Si…erano andati via, e mai più avrebbero fatto ritorno. E quand'anche lo avessero fatto ci sarei stato di nuovo io a frappormi tra lei e loro. Quando le chiesi quale fosse il suo nome lei non mi rispose subito. Mi chiese anzi quale fosse il mio, e quando glielo dissi ecco cosa mi rispose: "Se il vostro nome è Rannek, allora io sarò Rannik". Mi ero preparato ad un'altra fitta al cuore, ma stavolta fu piacevole. Le mi aveva scelto, prima ancora che io scegliessi lei.
Secondo gli usi degli Elfi, il suo Popolo, avrei dovuto condurla al cospetto del loro Arydeth qui sulla Costa della Spada e da loro sarebbe stato deciso il suo destino. Lo feci, ma la verità era che non avrei permesso a nessuno di portarmela via. Perché nel mio cuore lei era mia figlia, e nel suo io suo padre. 
Passò il tempo, ma iniziò una sorta di nuova vita per me. Avevo un nuovo slancio ma anche una nuova responsabilità. Ero un padre. Ero un combattente. Ero un comandante. Gli elfi della neonata Naitheraska avevano scelto di affidarsi a me, il loro Ebrath, per far sì che la loro fortezza avesse a capo un esperto e vissuto guerriero. Mi onorò molto questa loro decisione, anche se molti integralisti della loro cultura non la condividevano. La cosa mi causò qualche esitazione per breve tempo. Non mi consideravano un loro pari, ma la verità era che erano loro a non esserlo. Dove erano loro quando io combattevo per quella che sarebbe stata la loro futura casa? Quanto sangue hanno versato loro per difendere quella terra? Le risposte a queste domande mi conferirono la serenità di cui avevo bisogno.
Eppure…c'era molto che doveva accadere ancora. E un'altra svolta inaspettata doveva prendere la mia vita. 



Il bosco di Neverwinter non era mai stato un luogo tranquillo, né prima né durante la mia permanenza. C'è sempre una tribù di orchi, un disastro imminente, un'antica maledizione, una setta demoniaca o qualche creatura mostruosa ambulante pronta a rompere quiete e armonia in quello che dovrebbe essere un regno di Mielikki. E stava solitamente a noi, a chi si impegnava ad usare le armi per difendere quel luogo, porre fine a queste minacce. Il rifugio che sorgeva al centro del bosco era solitamente il bersaglio preferito di questi eventi e non ultimo un assalto combinato di orchi e goblin. Vi erano tre donne presenti lì: una mezzosangue drow, celebrante di Eilistraee, una mezzosangue elfica con capacità magiche e una donna umana, molto giovane ma molto intraprendente e certamente assai coraggiosa. Lo scontro fu breve. Orchi e goblin…nemici già visti e conosciuti. Noti per la loro abbondante audacia ma anche per la scarsa resistenza in battaglia. Jurak l'avrebbe definita una inutile esibizione di potere, ma di certo non si poteva lasciare che creature del genere facessero i loro comodi lì. 
Fu proprio quella donna umana ad attirare la mia attenzione. Per essere sinceri, invero, dovrei dire che fui io ad attirare la sua e certamente non in maniera positiva. Si sarebbe volentieri mangiata viva quella mezzosangue drow se io non mi fossi frapposto tra di loro, obiettando che, a parte onorare le tradizioni delle altre celebranti di Eilistraee, non aveva fatto nulla di male. E fu così che fui etichettato come "il difensore delle prostitute dal sangue nero". La cosa mi fece sorridere. Come potevo io rimproverarla, dopo che ero stato dieci volte più intemperante alla sua età?



Shen Yun Fang. Era quello il suo nome. Per parte mia l'ho sempre chiamata soltanto Yun. Il cielo sa quanto detesti le complicazioni in ogni cosa, finanche nel pronunciare nomi. Quello al rifugio non fu il nostro primo incontro. Lei era una sorta di combattente, molto abile negli scontri ravvicinati e, per giunta, senza utilizzare arma alcuna. Le sue mani potevano tranquillamente essere letali come la mia spada. E me ne accorsi dannazione! Come? E' presto detto. Non mi perdonò di non averle lasciato malmenare la mezzadrow, e quando ci ritrovammo per caso a Neverwinter, sul ponte del Drago, non mancò di farmelo notare. Ben si può immaginare che reazione possa avere un presunto indomito guerriero che si sente insultato da una persona che vede come poco più che una ragazzina. La invitai ad uscire dalle mura cittadine e a esternare in modo concreto il suo disappunto. In altre parole le dissi prendermi a pugni, se nel suo piccolo corpo vi era una tale mole di coraggio. E vi era…eccome se vi era! In un piccolo altopiano proprio furori dalle mura, ma fortunatamente non molto in vista, passammo una buona ora a "scambiarci i punti di vista". Non so dove avesse imparato, ma se la mia tempra non fosse stata tanto possente…mi avrebbe sconfitto. I suoi attacchi erano studiati, portati con grande attenzione e precisione, e i suoi occhi cercavano sistematicamente dei punti di cedimento sul mio corpo. Come detto devo ringraziare la mia tempra. La mia forza fece il resto.
Quando terminammo di esserci "spiegati" era palese che entrambi fossimo esausti. Chi dalle ore trascorse e chi dai colpi ricevuti. Mi ricordo chiaramente che dovetti rovesciarle dell'acqua sul viso per svegliarla, ma era talmente indolenzita che non riusciva ad alzarsi. E di sicuro non la potevo lasciare lì senza forze alla mercè del caso. Così finii per darmi da fare e montarle una tenda attorno, che dividemmo per la notte che incombeva. Mi sorprese quando prima di addormentarsi mi si addossò e posò la sua testa sul mio braccio. Ma non l'allontanai…anzi…istintivamente la avvicinai a me ancor di più. Non volevo che se ne andasse. Già allora non volevo perderla. Ho scritto, poco fa, che non riuscì a sconfiggermi per via della mia dura tempra. Ma la verità è che mi sconfisse e che mi arresi a lei senza condizioni. Quella ragazza l'aveva sbriciolata la mia tempra e aveva, infine, domato il mio cuore. Me ne innamorai senza neppure rendermene conto.



Trascorsero altri giorni. Lei ci mise di più a palesare i suoi sentimenti. Era la prima volta, del resto, che ne provava di simili. Rannik sembrava gradire molto l'idea che io avessi una compagna. Ma ecco che un altro imprevisto incrociò la mia strada, e io mi vidi costretto a lasciare che Yun tornasse nella sua casa, alla Cittadella del Corvo. In nome di Mielikki, quale assurdo errore commisi quel giorno! Avrei dovuto tenerla con me. O meglio avrei dovuto accompagnarla nel suo viaggio. Non riesco a perdonarmelo. Mi è impossibile. Io sapevo chi era sua madre e sapevo chi era suo padre. La lasciai andare tra le mani di due celebranti di Bane, i peggiori esseri maligni che possano camminare sul suolo del mondo…e tutto perché lei mi chiese di non accompagnarla. 
Passò molto prima che potessi avere sue notizie. I giorni trascorrevano lenti e ogni istante sembrava più lungo di quanto fosse in realtà. Fin quando un giorno un cantore elfico non raggiunse il castello di Naitheraska, ove io mi trovavo, e non so come ma riuscì a percepire la mia tristezza. Come fece non gliel'ho mai chiesto ma riuscì a mostrarmela. Grazie ad una sua magia riuscì a mostrarmi Yun. La vidi in una cella, sdraiata su un mucchio di paglia. La sentii singhiozzare, piangere fino all'esaurimento e poi cadere nel sonno. Quell'elfo mi disse che qualunque cosa io le avessi detto lei l'avrebbe sentita nel proprio sogno. Le dissi quanto fossi pentito di averla lasciata andare. Che la sua partenza aveva creato un vuoto in me e che non avevo trascorso ora senza pensarla. Io l'amavo. E questo le dissi.
Passò un mese prima che ricevessi una sua lettera, in cui scriveva di avermi visto nel sogno. Mi scrisse del suo amore per me…e di come se ne fosse accorta solo quando poté posare la sua testa sul mio braccio quella notte. E anche che sua madre aveva scoperto i suoi sentimenti e che non l'aveva presa affatto bene. 
Lettera dopo lettera apprendevo di come la stessero torturando, sottoponendo ad ogni genere di privazione, sevizia o qualunque cosa di più perverso la mente possa partorire. Quella cagna aveva addirittura fatto tornare suo marito, il padre di Yun, affinché provvedesse a rieducare la figlia. Le organizzarono persino un matrimonio con un pretendente, un accolito del tempio di Bane. Ma lei rifiutò. Resisteva alle loro torture, al dolore, alle menzogne. Si, perché furono persino capaci di portarla a pugnalare una bambina identica a Rannik, facendole credere che si trattasse di lei. Fui io, in un'altra lettera, a dirle che quanto aveva visto non era reale e che Rannik era sana e salva al mio fianco. Ma la mia pazienza si esauriva e l'indomito guerriero che sono sempre stato stava tornando per reclamare il suo posto, anche se con qualcosa di diverso. Erano cambiate le cause. Era mutato il perché. E così le scrissi di dire a quei tre bastardi senza madre che la morte avrebbe fatto loro visita molto presto. Lei mi disse anche di aver perduto ogni briciolo di fede, e così io le feci avere una statuetta di unicorno, il simbolo prediletto di Mielikki, alla quale chiesi in preghiera di tenerla al sicuro e di fare in modo che smettesse di soffrire quel supplizio. 
Ma sono misteriose le decisioni degli dei a volte. Sua madre intercettò la mia lettera e il mio dono, e per vendetta sacrificò sua figlia a Bane. Una madre…che uccide sua figlia. Fu proprio quella cagna a rispondere alla mia lettera dicendomi "Vivi nella consapevolezza di averla uccisa…". 
E io ero lì…con quella lettera in mano e lo sguardo perso nel vuoto. La più dura delle lezioni che Mielikki mi inflisse. Con tutta la mia forza, la mia gloria, con tutti i nemici che temevano la mia mano e la mia spada, con tutta la mia determinazione che molti ostacoli aveva spazzato via, io non fui capace di salvare colei che amavo. Con tutta la mia forza…io non ero niente.



I suoi genitori, dopo aver trafitto il suo cuore con un pugnale, la gettarono ai confini della grande foresta di Cormanthor. Lei era morta, ma con le sue ultime forze aveva stretto a sé quel che restava di quella statuetta. Fu proprio quell'oggetto ad attirare l'attenzione di una celebrante di Lurue, che è alleato di Mielikki, e a farle prendere la decisione di impiegare il proprio potere per ridare la vita e la salute a quella martire. Al suo risveglio Yun non ricordava nulla, se non me, la mia voce e Rashemen. Fu lì che chiese di andare e la celebrante fu molto accorta a consegnarla ad un gruppo di Hathran in viaggio per quella zona. La condussero a Mulsantir e fu mia madre ad informarmi del suo arrivo, dopo che Yun disse alla mia famiglia che stavo bene e che mi trovavo nella Costa della Spada. Quale gioia provai nel leggere quella lettera io non so descriverlo. Fu la fine di ogni mia angoscia…di ogni angoscia che mi avesse accompagnato sino a quel momento. Mulsantir era in piedi, i miei familiari stavano tutti bene, i miei amici si erano fatti onorevolmente valere e la donna che amavo era viva…e mi aspettava.
Ogni tassello era tornato al suo posto. Ogni cosa aveva preso la giusta piega. Per questo dopo la battaglia alla Corte degli Elfi Acquatici compresi che il mio ruolo in quella storia era ormai esaurito. Noi, tutti noi, non siamo che pedine nei più grandi disegni divini, e gli dei hanno sempre un disegno per ognuno di noi. Chi ero io prima del mio esilio l'ho già esposto. Ma chi ero alla fine di quel cammino è totalmente diverso. Imparai a capire cosa significhi lottare per qualcun altro oltre che per me stesso. Imparai a capire che non sempre è saggio giudicare chi ci è di fronte dalle sole apparenze. Imparai che il più indomito dei cuori poteva essere domato dal più sincero degli amori. Imparai a capire cosa significhi perdere le persone a noi care e far soffrire chi ci ama per la nostra bramosia. Imparai che l'onore e la gloria alla fine di una battaglia non sono il premio più grande che un uomo possa desiderare, finanche un uomo che come me ha scelto la via della spada. 
Quando nella mia mente tutto questo fu chiaro, allora e solo allora arrivai a comprendere cosa la mia Dea aveva voluto insegnarmi. E quando ella lo vide allora fece in modo che comprendessi anche che era ora, per me, di tornare alla mia vita.
E ora che sono qui, nella mia casa a scrivere questa mia memoria, io so che non potrebbe esserci gioia più grande che vedere la mia Yun dormire serenamente nel mio letto questa notte, e sapere di averla di nuovo con me quando il sole sarà alto nel cielo. Così come non potrebbe esserci gioia più grande che sentire il cuore sciogliersi ogni volta che mia figlia mi guarda negli occhi.